venerdì 25 novembre 2011

La Verità sulle Tasse #2




Questo articolo, una risposta ad Alan Greenspan's call for a consumption tax, apparve originariamente in Review of Austrian Economics, 1994, Volume 7, No. 2, pp. 75–90, come The Consumption Tax: A Critique.


Seconda Parte.

Qui la Prima Parte.
Qui la Terza Parte.


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di Murray N. Rothbard


Proporzionalità e Progressività: Chi? A Chi?

Una delle presunte virtù dell'imposta sui consumi avanzata dai conservatori è che, mentre l'imposta sul reddito può essere ed è generalmente progressiva, l'imposta sui consumi è praticamente ed automaticamente proporzionale. Si è anche affermato che la tassazione progressiva equivale al furto, con i poveri che derubano i ricchi, mentre la proporzionalità è la tassa equa e ideale. In primo luogo, tuttavia, l'imposta sui consumi di Fisher potrebbe essere altrettanto progressiva come l'imposta sul reddito. Anche l'imposta sulle vendite è scarsamente priva di progressività. Per molti le tasse sulle vendite esonerano in pratica prodotti come il cibo, esenzioni che distorcono le preferenze dei singoli mercati ed introducono anche la progressività della tassazione.

Ma è davvero la progressività il problema? Prendiamo due individui, uno che fa $10,000 all'anno e un altro che fa $100,000. Cerchiamo di ipotizzare due sistemi fiscali alternativi: uno proporzionale, l'altro ripidamente progressivo. Nel sistema fiscale progressivo, le aliquote delle imposte sul reddito partono dall'1% per l'uomo che prende $10,000 l'anno, fino al 15% per l'uomo con il reddito più elevato. Nel sistema proporzionale successivo, supponiamo che tutti, indipendentemente dal reddito, paghino lo stesso 30% del proprio reddito. Nel sistema progressivo, l'uomo a basso reddito paga $100 l'anno in tasse, e il più ricco paga $15,000, mentre nel sistema presumibilmente più equo e proporzionale, l'uomo più povero paga $3,000 invece dei $100, mentre il più ricco paga $30,000 invece dei $15,000. E', però, una magra consolazione per il tizio col reddito più alto che l'uomo più povero stia pagando la stessa percentuale dell'imposta sul reddito come lui, poiché la persona più ricca è multata molto più di prima. E' poco convincente, quindi, quando qualcuno dice all'uomo più ricco che non è più "derubato" dal povero, dal momento che sta perdendo molto più di prima. Se si obietta che il livello complessivo della tassazione è molto più alto sotto il nostro sistema proporzionale postulato sopra piuttosto che in quello progressivo, rispondiamo che è proprio questo il punto. Poiché quello a cui la persona con più alto reddito si sta veramente opponendo non è il mitico furto inflitto su di lui "dal povero"; il suo problema è la quantità reale estratta da lui da parte dello Stato. Il reclamo vero e proprio dell'uomo più ricco, quindi, non è quanto malamente viene trattato rispetto a qualcun'altro, ma quanti soldi vengono estratti dai suoi sudati asset. Riteniamo che la progressività delle imposte è una falsa pista; il vero problema da mettere a fuoco dovrebbe essere l'importo che ogni individuo è costretto a cedere allo Stato.[1]

Lo Stato, ovviamente, spende i soldi che riceve in vari gruppi, e coloro che sostengono che la tassazione progressiva multa i ricchi a favore dei poveri lo sostengono confrontando il livello di reddito dei contribuenti con quelli dei beneficiari delle elargizioni dello Stato. Allo stesso modo, la Scuola di Chicago sostiene che il sistema fiscale è un processo mediante il quale la classe media sfrutta sia i ricchi che i poveri, mentre la Nuova Sinistra insiste sul fatto che le tasse sono un processo attraverso il quale i ricchi sfruttano i poveri. Tutti questi tentativi fanno cilecca nel raggruppare ingiustificatamente in una classe i contribuenti e i destinatari rispetto allo Stato. Coloro che pagano le tasse allo Stato, siano essi ricchi, classe media o poveri, sono certamente un insieme di persone diverso rispetto a quei ricchi, quella classe media, o quei poveri che ricevono i soldi dalle casse dello Stato, il quale comprende in particolare i politici ed i burocrati così come coloro che ricevono favori da questi membri dell'apparato dello Stato. Non ha senso mettere sullo stesso piano questi gruppi. Ha molto più senso rendersi conto che il processo di tassare e spendere crea due e solo due classi sociali separate, distinte ed antagoniste, quelle che Calhoun brillantemente identificò come i contribuenti (al netto) ed i consumatori fiscali (al netto), quelli che pagano le tasse e coloro che ci vivono sopra. Faccio presente che, considerata questa prospettiva, diventa particolarmente importante ridurre al minimo gli oneri che lo Stato ed i suoi consumatori fiscali privilegiati pongono sulla produttività dei contribuenti.[2]



Il Problema del Risparmio Fiscale

L'argomento principale per la sostituzione di una imposta sul reddito con una imposta sui consumi è che il risparmio non sarebbe più tassato. Una tassa sui consumi, come affermano i suoi sostenitori, tasserebbe il consumo e non il risparmio. Il fatto che questo argomento sia generalmente avanzato da economisti di libero mercato, ai nostri giorni soprattutto dai supply-sider, fa rimanere sbigottiti non poco. Poiché gli individui nel libero mercato, dopo tutto, decidono l'allocazione del proprio reddito o al consumo o al risparmio. Questa proporzione dei consumi direzionata al risparmio, come l'economia Austriaca ci insegna, è determinata dal tasso di preferenza temporale di ogni individuo, il grado con cui preferisce i beni presenti a quelli futuri. Poiché ogni persona assegna continuamente il proprio reddito tra il consumo di oggi e il risparmio per l'investimento in beni che porteranno un reddito in futuro. E ogni persona decide l'assegnazione in base alla sua preferenza temporale. Dire, quindi, che solo il consumo dovrebbe essere tassato e non il risparmio equivale a sfidare le preferenze volontarie e le scelte degli individui sul libero mercato, e dire che stanno risparmiando troppo poco e consumando troppo, e che quindi dovrebbero essere rimosse le tasse sui risparmi e tutti gli oneri immessi sul presente rispetto al consumo futuro. Ma fare ciò equivale a sfidare le espressioni di preferenza temporale del libero mercato, a sostenere la coercizione del governo di modificare con la forza l'espressione di tali preferenze, in modo da imporre un coefficiente superiore di risparmio rispetto a quanto desiderato dagli individui liberi.

Dobbiamo, allora, chiederci, Secondo quali criteri i supply-sider e gli altri sostenitori delle imposte sui consumi decidono perché e in che misura il risparmio è troppo basso e il consumo troppo alto? Quali sono i loro criteri di "troppo basso" o "troppo alto", su cui si basa la loro proposta coercitiva sulla scelta individuale? E per di più, con quale diritto si fanno chiamare sostenitori del "libero mercato" quando propongono di dettare scelte in un ambito vitale come la proporzione tra consumo presente e futuro?

I supply-sider si considerano eredi di Adam Smith, e in un certo senso hanno ragione. Poiché anche Smith, guidato da una profonda ostilità Calvinista verso i consumi di lusso, cercò di utilizzare il governo per aumentare la quota sociale di investimenti al consumo oltre i desideri del libero mercato. Un metodo che sosteneva era quello delle alte tasse sui consumi di lusso; un altro era quello di leggi sull'usura, per guidare i tassi di interesse al di sotto del livello di libero mercato, e, quindi, canalizzare o razionare coercitivamente i risparmii ed il credito nelle mani di debitori sobri ed operosi, e fuori dalle mani di consumatori "prodighi" che sarebbero stati disposti a pagare elevati tassi d'interesse. Infatti, attraverso il dispositivo dello spettrale Spettatore Imparziale, il quale, al contrario dei veri esseri umani, era indifferente nel momento in cui riceveva le merci, Smith praticamente sosteneva che il tasso ideale di preferenza temporale fosse zero.[3]

L'unico argomento coerente offerto dai sostenitori della tassazione sul consumo contro una tassazione sul reddito è quello di Irving Fisher, sulla base dei suggerimenti di John Stuart Mill.[4] Fisher sosteneva che, poiché l'obiettivo di tutta la produzione è il consumo, e poiché tutti i beni capitali sono solo stazioni secondarie sulla strada del consumo, l'unico reddito autentico è la spesa al consumo. Viene presto tratta la conclusione che solo il reddito al consumo, non quello che viene generalmente chiamato "entrata", dovrebbe essere soggetto alla tassazione.

Più precisamente, il risparmio ed il consumo, si sostiene, non sono veramente simmetrici. Tutto il risparmio è diretto verso un maggiore consumo futuro. Il potenziale consumo attuale è scontato in cambio di un aumento previsto nei consumi futuri. L'argomentazione conclude che quindi qualsiasi ricavo dagli investimenti non può che essere considerato un "doppio conteggio" delle entrate, nello stesso modo in cui un conteggio ripetuto delle vendite lorde, per esempio, dei Wheaties dal produttore al grossista al dettagliante come parte delle entrate nette sarebbe un conteggio multiplo dello stesso bene.

Questo ragionamento è corretto fintanto che spiega il processo di consumo-risparmi, ed è abbastanza utile per livellare una critica alle statistiche convenzionali delle entrate nazionali. Queste statistiche lasciano scrupolosamente fuori tutti i conteggi doppi o multipli al fine di arrivare al prodotto netto totale, eppure includono arbitrariamente nel totale netto delle entrate, gli investimenti in tutti i beni capitali di durata superiore ad un anno — un chiaro esempio di doppio conteggio. Pertanto, l'attuale prassi esclude assurdamente dal reddito netto gli investimenti di un commerciante in scorte della durata di 11 mesi prima della vendita, ma include nell'utile netto gli investimenti in scorte della durata di 13 mesi. La conclusione convincente è che una stima del reddito sociale o nazionale deve comprendere solo la spesa al consumo.[5]

Nonostante le molte virtù dell'analisi di Fisher, però, è inammissibile saltare alla conclusione che solo il consumo dovrebbe essere tassato piuttosto che il reddito. E' vero che il risparmio porta ad una maggiore offerta di beni di consumo in futuro. Ma questo fatto è noto a tutte le persone; è precisamente il perché la gente risparmia. Il mercato, insomma, conosce bene la forza produttiva del risparmiare per il futuro, ed alloca le sue spese di conseguenza. Eppure, anche se le persone sanno che il risparmio renderà loro maggiore consumo futuro, perché non risparmiano tutto il loro reddito attuale? Chiaramente, a causa delle loro preferenze temporali presenti rispetto al consumo futuro. Queste preferenze temporali regolano l'allocazione delle persone tra presente e futuro. Ogni individuo, dato il suo "reddito" in denaro — definito in termini convenzionali — e le suo scale di valori, assegnerà tale reddito nella proporzione più desiderata fra consumi ed investimenti. Ogni altra destinazione di tale reddito, ogni proporzione diversa, soddisferebbe pertanto i suoi bisogni e desideri, in misura minore ed abbasserebbe la sua posizione sulla sua scala di valori. E' quindi incorretto affermare che l'imposta sul reddito impone un onere supplementare al risparmio e agli investimenti; penalizza tutti gli standard di vita di un individuo, presenti e futuri. Una tassa sul reddito non penalizza il risparmio di per sé più di quanto non lo faccia sui consumi.

Quindi, l'analisi di Fisher, per tutta la sua raffinatezza, consdivide semplicemente i pregiudizi degli altri sostenitori dell'imposta sui consumi opposti alle allocazioni volontarie del libero mercato tra consumi ed investimenti. L'argomento pone più enfasi sui risparmi e sugli investimenti rispetto a quanto lo faccia il mercato. Una tassa sui consumi è altrettanto sconvolgente delle preferenze temporali volontarie e delle allocazioni di mercato quanto una tassa sul risparmio. Nella maggior parte e nelle altre aree del mercato, gli economisti di libero mercato capiscono che le allocazioni sul mercato tendono sempre ad essere ottimali in relazione alla soddisfazione dei desideri dei consumatori. Perché allora troppo spesso fanno un'eccezione per le allocazioni dei consumi-risparmi, rifiutandosi di rispettare i tassi di preferenza temporale sul mercato?

Forse la risposta è che gli economisti sono soggetti alle stesse tentazioni come chiunque altro. Una di queste tentazioni è quella di incitare ad alta voce te, lui e l'altro per lavorare di più, e risparmiare ed investire di più, aumentando quindi gli standard di vita presenti e futuri. Una tentazione conseguente è quella di invocare i gendarmi affinché facciano rispettare questo desiderio. In qualunque modo possiamo chiamare questa tentazione, la scienza economica non ha nulla a che fare con essa.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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Note

[1] Per una trattazione completa, ed una discussione su chi viene derubato da chi, consultare Murray N. Rothbard, Power and Market: Government and the Economy, 2nd ed. (Kansas City: Sheed Andrews & McMeel, 1977), pp. 120–21.

[2] Consultare Murray N. Rothbard, Man, Economy, and State: A Treatise on Economic Principles.

[3] Consultare l'articolo illuminante di Roger W. Garrision, "West's 'Cantillon and Adam Smith': A Comment," Journal of Libertarian Studies 7 (Fall 1985): 291–92.

[4] Consultare Rothbard, Power and Market, pp. 98–100.

[5] Omettiamo qui la questione affascinante di come dovrebbero essere trattate le attività del governo nella statistica delle entrate nazionali. Consultare Rothbard, Man, Economy, and State, 2, pp. 815–20; idem, Power and Market, pp. 199–201; idem, America's Great Depression, 4th ed. (New York: Richardson & Snyder, 1983), pp. 296–304; Robert Batemarco, "GNP, PPR, and the Standard of Living," Review of Austrian Economics 1 (1987): 181–86.

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